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RICORDI
Via Cenisio
Pompeo Casati sul  libro "Giocavamo alla guerra" - Memorie di giovani monzesi


Mulini sul Lambro; l'attuale spalto Maddalena
Mulini sul Lambro; l'attuale spalto Maddalena

BOMBE, FAME E GELONI

I telegiornali mostrano spesso immagini di distruzioni legate a conflitti, purtroppo attivi in ogni momento in qualche parte del pianeta. Sessant'anni fa, durante l'ultima guerra mondiale, al centro di scene analoghe eravamo anche noi. Avevo solo due anni quando l'Italia entrò in guerra. Vi fu l'incubo delle sirene che annunciavano l'arrivo di aerei pronti a sganciare bombe. Di notte il loro lugubre suono ci buttava giù dal letto di soprassalto, e ci costringeva a radunarci in rifugi sotterranei di case prescelte. Spesso venivo prelevato di peso e portato in braccio fuori ancora addormentato. Si doveva percorrere un tratto di strada per raggiungere le cantine della palazzina Galmanini di Via Gottardo dove persone impaurite di ogni età porgevano l'orecchio al rombo degli aerei, sperando che si allontanassero senza sganciare bombe e si attendeva il segnale di cessato allarme per riemergere in superficie. A Monza, per fortuna, non vi furono grandi devastazioni, ma a Milano per diversi anni dopo la fine della guerra, rimasero al suolo cumuli di macerie di numerosi edifici distrutti specialmente nei bombardamenti dell'agosto 1943. Passeggiando per le vie di Milano a guerra finita, si assisteva a un impressionante spettacolo di rovine.
Impossibile dimenticare che in quegli anni la cronica scarsità di alimenti costringeva a fare acrobazie per procuraci di che sopravvivere (in casa vi erano sei figli da sfamare). Era diventata cronica anche l'assenza di legna e di carbone per la stufa che serviva a cuocere i cibi e a riscaldare l'edificio. Freddo, denutrizione, insufficienza di vitamine e abbigliamento ridotto a pochi capi essenziali, tutto concorreva a provocare i fastidiosi geloni.
Qualche proteina ci veniva, specialmente nell'immediato dopoguerra, dalle battute di caccia di papà; bastava che uscisse a piedi, doppietta a tracolla, per iniziare a trovare nella campagna a poche centinaia di metri da casa, tordi, quaglie e, nei casi più fortunati, fagiani e lepri.
A quei tempi forse la caccia aveva un senso: non si ammazzavano animali come ora solo per divertimento, ma per integrare un'alimentazione che altrimenti era troppo povera. Inoltre la selvaggina era abbondante e i cacciatori pochi. Annesso alla villetta in cui abitavamo, un orto coltivato con grande passione e perizia, ci forniva verdura e frutta di ottima qualità.
Resta però, indelebile, il ricordo della fame patita in alcuni momenti dell'infanzia e ad essa è collegato il grande senso di disagio che provo quando vedo cibi avanzati e buttati nella spazzatura o raccolti di frutta che potrebbero sfamare intere popolazioni e che invece, per impescrutabili leggi economiche, vengono distrutti.

L'ASILO E LA SCUOLA

A cinque anni fu assai traumatico essere rinchiuso e passare gran parte della giornata in un asilo, invece di vagabondare liberamente in esplorazione delle vicine campagne, come ero solito fare. I primi anni delle elementari, fino alla terza, coincisero con gli ultimi anni di guerra. Asilo prima e scuola poi, erano quelli della Parrocchia di S.Biagio, gestiti dalle suore di Maria Bambina. Per raggiungere la scuola, situata all'inizio di Via Manara, mi incamminavo, senza essere accompagnato, per Via Gottardo e dovevo attraversare il ponte sulla ferrovia per imboccare Via Villoresi. La raccomandazione materna era sempre la stessa: era l'invito ad attraversare il ponte di corsa, per il possibile rischio di qualche azione militare dal cielo sulla linea ferroviaria.
La mensa scolastica di solito ci forniva, nel refettorio, una ciotola che fissavamo in appositi buchi nelle tavolate, per evitare che la rovesciassimo. Ci portavamo eventuali altri alimenti in un cestino; nel mio trovava posto, nei momenti più grami, un frutto del giardino o una fetta di castagnaccio. La domenica acquistavamo questa torta di castagne e, in inverno, le caldarroste, dal "Farinetta", che allestiva il suo banchetto di vendita dove ora vi è l'edicola dei giornali presso la Chiesa di S.Biagio.
A parte l'eccessiva severità di qualche insegnante, della scuola non posso che dire bene. Tra l'altro in quell'ambiente, così come nell'oratorio della stessa Parrocchia, sono nate allora molte sincere amicizie che si sono tuttora conservate.

LA STRADA, LA CAMPAGNA E I GIOCHI NELL'IMMEDIATO DOPOGUERRA

Non avevo la memoria di strade illuminate di notte; durante il conflitto furono spente le luci per evitare di fare un favore a chi ci bombardava. L'oscurità ci avvolgeva e ci si concava con l'angoscia di un possibile brusco risveglio al suono delle sirene. Il ritorno dell'illuminazione stradale fu un grande avvenimento, un segnale che si tornava a vivere. Finalmente si poteva uscire di sera in libertà e vedere la città sotto un aspetto inconsueto, quasi irreale, anche se i primi lampioni non avevano certo la luminosità degli attuali e le vie e piazze illuminate erano solo le principali. E pensare che ora abbiamo esagerato con le luci artificiali, puntandole inopportunamente verso il cielo, fino a impedire di vedere le stelle.
Nonostante i tempi grami, non si rinunciava di certo al gioco e al divertimento. Il luogo della maggior parte dei nostri svaghi era la strada. Sono nato e vissuto per parecchi anni nella villetta tuttora esistente, al n°3 di Via Cenisio (ora Moncenisio) in zona S.Biagio. Dei tre cancelli di ferro originari e tra loro uguali ne rimaneva solo quello centrale; gli altri due laterali furono sacrificati (così mi dissero in famiglia) per fornire metallo all'industria bellica e sostituiti da muretti sormontati da una rete metallica, come si può tuttora vedere.
Nella via vi erano alcune attività produttive, soprattutto piccole industrie, la cascina "baco" al n°8 che era un edificio (tuttora esistente) ospitante nel suo interno un allevamento di bachi da seta, e un rigattiere che occupava una vasta area al n°5. La strada si animava nei momenti in cui gli operai e gli addetti alle varie attività produttive entravano e uscivano dai luoghi di lavoro; per il resto della giornata era quasi deserta, non asfaltata così come le strade adiacenti. Ogni tanto passavano carri trainati da cavalli e uno dei divertimenti preferiti era montarci sopra sul retro all'insaputa del conducente e farsi trainare per un tratto. Col passare degli anni la via cominciava ad essere più frequentata: passava, ad esempio, il carretto del venditore dei pani di ghiaccio per le nostre ghiacciaie domestiche (non vi erano i frigoriferi). Per qualche centesimo il conduttore ce ne staccava un pezzo di lunghezza desiderata. Periodicamente passava, col suo carrettino, lo straccivendolo che comperava gli stracci pesandoli con la stadera; allora facevano comodo anche quei pochi spiccioli che si potevano ottenere. Non era raro assistere al triste spettacolo di ubriachi che camminavano barcollando.
I giochi di strada erano unicamente quelli dei maschi, le bambine giocavano nei cortili. Tra i più praticati vi era, manco a dirlo, il calcio. Ci accanivamo attorno a una "sfera" fatta di stracci, a volte imbottita di segatura, solo in seguito cominciarono a comparire palle di gomma e, successivamente, anche palloni di cuoio, di solito posseduti da pochi fortunati e invidiati. Nell'intervallo di mezzogiorno s'improvvisavano partite di calcio con gli operai delle locali Officine Meccaniche al n°3 della stessa via, ora area industriale dismessa, in attesa di una nuova destinazione d'uso. Qualche fastidio e lamentela la procuravamo di certo se periodicamente da ciascuno dei due lati della via sbucavano vigili in bicicletta che ci sequestravano i corpo del reato (la palla). I genitori dovevano allora andare in municipio a perorare la restituzione. Una volta accompagnai mio padre; il capo dei vigili, dopo una ramanzina di circostanza, ci mostrò un armadio stracolmo di simili oggetti sequestrati. Evidentemente allora gran parte dei ragazzi giocava a calcio nelle vie.
Sulla strada l'altro gioco preferito era la lippa, che noi chiamavamo "passerella", forse traduzione dialettale di "pazzerella", con allusione al saltellare qua e là del bastoncino affusolato alle due estremità, sollevato in aria con un bastone più lungo e quindi colpito al volo. Per costruire gli attrezzi di questo gioco bastava un manico di scopa e un'accetta per appuntire il bastoncino.
Solo più tardi comparvero per strada carrelli di legno costruiti dai più intraprendenti. Dotati di ruote costituite da cuscinetti a sfere, erano tavole di legno su cui ci si sdraiava e, spinti da un amico, sfrecciavano rumorosi in gare improvvisate.
In inverno, dopo nevicate allora assai frequenti, uno dei giochi era la "sterligora", pista di ghiaccio che si otteneva battendo più volte, in scivolata e in piedi, uno stesso tratto di via a lato del marciapiede. L'abilità consisteva nel costruire una pista la più lunga possibile e nel percorrerla fino in fondo senza cadere dopo esservici infilati con una lunga rincorsa. Davvero gli inverni erano allora mediamente più rigidi e lunghi; non c'è bisogno dei calcoli degli scienziati per essere sicuri del riscaldamento globale in atto, che da noi si manifesta soprattutto nell'aumento delle temperature medie invernali.
In estate andavamo in esplorazione delle campagne ai lati del Canale Villoresi. Dai gelsi ai bordi dei fossi di irrigazione coglievamo le dolci e succose more (in dialetto:"mucòi"); questi alberi, ormai quasi scomparsi, erano frequentissimi e legati all'allevamento dei bachi da seta, allora un'importante fonte di reddito dell'Italia Settentrionale. Si faceva il bagno nel "Niverin", un canale secondario del Villoresi che aveva acqua poco profonda e irrigava la campagna che allora si estendeva quasi ininterrotta nelle aree adiacenti al canale. Vi era un misto di invidia e di ammirazione per i più grandi che si tuffavano e nuotavano nelle acque relativamente fredde, profonde e veloci del Villoresi; i più audaci riuscivano addirittura a sottopassare in apnea la Via Cavallotti, immergendosi a monte e riemergendo a valle.

Pompeo Casati


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 22 marzo 2003